Il Mediterraneo ai mediterranei?

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Articolo di Francesco Venanzi* visto 3397 volte 25 giugno 2011

Il Mediterraneo ai mediterranei? Si, ma…

Gli ostacoli che impediscono una integrazione tra le diverse rive del mare interno su cui si affacciano tre continenti e 23 paesi



Pubblichiamo volentieri questo contributo critico ma costruttivo di Francesco Venanzi  al dibattito su una maggiore integrazione tra le economie dei Paesi del Mediterraneo, ed in particolare tra quelli del Nord Africa e dell’Europa. Le considerazioni di Venanzi sono indiscutibili. Ma da un lato nessuno pensa ad una integrazione sul modello di quella dell’Unione Europea. In una prima, lunga fase, l’unica prospettiva ragionevole è quella di una sempre più stretta cooperazione economica. In secondo luogo ci chiediamo: certe contrapposizioni che Venanzi elenca, come il “boom” demografico nel Nord Africa e la denatalità in Europa; le capacità tecniche ed imprenditoriali europee e l’abbondanza di risorse energetiche in alcuni dei Paesi nordafricani, sono fattori di contrapposizione o di complementarietà?

Il discorso sulle differenze di religione indubbiamente pesa, ma solo in un’ottica integralista, che è alimentata dalla separatezza, dall’ignoranza, dalla povertà, e su cui c’è anche chi soffia postulando inevitabili “scontri di civiltà”. Dimenticando disinvoltamente e rimuovendo il debito non trascurabile che l’Europa ha con la civiltà araba, quando essa era nel pieno splendore e l’Europa nel buio della decadenza.

Che infine il fervore imprenditoriale e lo sviluppo capitalistico trovino l’ambiente più favorevole nell’etica del protestantesimo, come vorrebbe Max Weber, appare sempre più discutibile. Dei quattro Paesi del BRIC che oggi sono alla testa dello sviluppo economico mondiale, uno è cattolico, l’altro ortodosso, il terzo induista, e la Cina oscilla tra l’ateismo marxista e le tradizione confuciana, buddista e taoista.

Quello che a partire dallo scorso Febbraio sta succedendo nella sponda Sud del Mediterraneo ha riportato l’attenzione sulle idee di una maggiore integrazione tra i paesi delle due sponde, come mezzo per dare alle economie e ai popoli del Nord Africa e del Levante una prospettiva di maggiore benessere e libertà.

Idee che portarono nel 1995 alla Conferenza di Barcellona ove fu varato il programma Partenariato Europa-Mediterraneo, e poi portarono il presidente francese Sarkosy a varare nel 2007 l’idea della Unione Mediterranea. Ambedue i progetti, come si constata oggi, non hanno avuto un seguito concreto e non hanno evitato l’esplodere delle rivolte popolari contro la disoccupazione, la fame, la corruzione dei governi, la mancanza di libertà.

Quella del Mediterraneo ai mediterranei è una bella idea. Ma a considerarla da vicino appare utopica.

Affinché una area geografica assuma una forma di integrazione tra le sue componenti, occorrono due cose:

-che ci sia un minimo di  omogeneità  demografica, economica, culturale;

-che ci sia un forte progetto economico di interesse comune.

Sulle omogeneità mi sembra che siamo troppo lontani dal minimo necessario.

Demografica: la sponda Sud è caratterizzata da una espansione demografica senza freni da decenni, che ha prodotto una  bassissima  età media della popolazione ed una massa di giovani disoccupati. La sponda Nord è invece caratterizzata da bassa fertilità, età media elevata,  alte percentuali di anziani. E ciò nonostante elevata disoccupazione giovanile.

Economica:  la sponda Sud  è ricca di risorse minerarie energetiche; ha una agricoltura ai limiti della sussistenza;  non possiede capacità tecnologiche e imprenditoriali  proprie che la rendano competitiva sui mercati internazionali; ha un sistema di welfare  minimo. Dalle esportazioni di energia ricava reddito che non trova impiego produttivo nell’area, ma è investito nelle economie occidentali. A questo quadro fa eccezione per alcuni aspetti la Turchia. La sponda Nord è povera di risorse minerarie, ma è  ben  industrializzata e abbastanza dotata di capacità tecnologiche e imprenditive; da due decenni  soffre per la scarsa competitività  a causa della globalizzazione; ha sistemi di welfare avanzati resi più costosi dall’invecchiamento della popolazione. Ha debiti pubblici elevati e scarsità di capitali da investire.

Culturale: la sponda Sud è caratterizzata da regimi assolutisti,  ove le libertà sono represse e l’iniziativa economica privata trova difficilmente spazio. La sponda Nord ha ormai connaturate  forme avanzate di democrazia.

In questo quadro, appare improbabile che si manifestino serie spinte a forme di integrazione. Una integrazione è già in atto con lo scambio delle risorse energetiche dal Sud a Nord.  Ma questo scambio non va molto al di là di un puro fatto commerciale. E il  problema della disoccupazione giovanile che affligge ambedue le sponde impedisce che – nella situazione di fatto attuale – l’integrazione si estenda.

L’integrazione europea,  che dopo 60 anni è ancora ampiamente incompleta,  nacque sui progetti della CECA e dell’Euratom,  che toccavano da vicino forti interessi dei paesi fondatori e trovò un terreno favorevole nella grande affinità delle culture e delle economie degli stessi.  Conta anche il sistema delle comunicazioni che in Europa è favorito dalla contiguità territoriale, mentre nel Mediterraneo è ostacolato appunto dal mare (che il mare faciliti le comunicazioni era vero nei tempi antichi, quando sulla terraferma si doveva camminare o andare a cavallo; ma oggi strade e ferrovie sono più comode delle navi).

Allora, bisognerebbe individuare alcuni grandi e forti progetti economici che uniscano gli interessi delle due sponde e su di essi imbastire una politica mediterranea di integrazione. Non è facile, perché pesano tutte le disomogeneità sopra ricordate e soprattutto la disoccupazione che affligge ambedue le sponde.

Una priorità dovrebbe essere quella di ridurre la dipendenza alimentare di  quelle economie dalla importazione di grano. Gli aiuti internazionali  sotto forma di donazione o vendita a basso costo di grano e altre derrate agricole hanno distrutto l’economia agricola famigliare su cui si fondava la sussistenza della maggioranza della popolazione. L’assistenza dell’Europa alla rivitalizzazione dell’economia agricola su dimensioni famigliari, appare l’intervento prioritario capace di assorbire  una buona parte della disoccupazione giovanile.

Anche la realizzazione di una autostrada dallo Stretto di Gibilterra al Canale di Suez contribuirebbe a dare nuove opportunità di sviluppo  alle economie dei cinque paesi rivieraschi.

Si dovrebbe poi guardare da vicino alle possibilità  di interventi sul territorio capaci di creare nuove opportunità di reddito e occupazione. Un esempio è il progetto abbozzato un decennio fa in Tunisia, e lasciato cadere forse per l’entità del costo, per la creazione di un lago nella grande area del Shatt al Jarid nel sud del paese, mediante grandi scavi per portarne la superficie al disotto del livello del mare e per la costruzione  di  un canale di un centinaio di km fino al mare.  Il lago modificherebbe il microclima rendendolo favorevole a sviluppi agricoli e creerebbe opportunità di  sviluppi turistici. Il progetto andrebbe oggi ripreso, facendone una valutazione costi-benefici, data la prospettiva di un  massiccio impiego di manodopera nella fase degli scavi e poi nelle attività agricole e turistiche.

Questi progetti di economia reale darebbero ai proventi delle esportazioni petrolifere della regione opportunità di investimento migliori di quelle finanziarie, oggi – a quanto pare – preferite dai governi dell’area.

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